*san,- , "judged"?

From: tgpedersen
Message: 63586
Date: 2009-03-08

The following is yet another of Torsten's horribly long postings. I'm
afraid I can't do it any other way, the correspondences are not point-
to-point semantic matches, but field-to-field, so to speak, I
discovered that some old root *san,- "public verdict" seems to lie
behind Northern IE and Jeniseian and perhaps Uralic perception of
what is right and true.

La Lengua Venetica II
[occurrences of particular words in Venetic inscriptions]
S´ainatei
s´a.i.naie.i. (Es 25, 44, 54, 64);
s´a.i.nate.i. (Ca 18, 22, 23, 27, 67, 68);
.s´.ainate.i. (Ca 20);
s´.i.naþei. (Es 58);
s´a.i.nat. (Ca 6);
s´a.i.na[ (Es 68);
s´aina[ (Ca 11);
]nate.i. (Es 27);
s´a.i.n.s´.(r)e.i. (Es 56).
Puo esserne un'abbreviazione s´ (Es 43, 58 11).
...
Epliclesi di divinità a Este e a Lagole, attestata unicamente con
uscita in -et, di dativo, dedicatorio, tema in -i (teoricamente
possibile anche tema in consonante). Per la formazione nominale è
stato proposto : o un suffisso -ti- (Krahe) in funzione di nomen
agentis, secondaria rispetto alla funzione di nomen actionis (1); o
una formazione -a:ti- « ...qui fournit des éthniques en latin, en
osco-ombrien, et, sans doute en vénète même (altina:tes, etc), ainsi
qu'en « illyrien » et en celtique » (Lejeune [167]. p. 220). Nel
primo caso vi è la difficoltà rilevata dal Pisani (LIa) che, ad
esempio, in Némesis e Lákhesis il significato « quella che assegna o
vendica » e « quella che determina la sorte » sarebbe derivato, per
Némesis da un più antico « azione di attribuire a qualcuno » e per
Lákhesis da « destino » (Bacide presso Erodoto IX, 43). Un processo
di questo tipo non è escluso in venetico, ove una analoga formazione
di nomen actionis funziona da teonimo (Fora), e si ha nella
terminologia « centrale » (2) del divino (tipo Moi~ra, ai~sa., a. sl.
BogU) : inoltre quale sia il valore di una formante, una volta usato
per un'epiclesi divina acquista un valore d'agente non in virtù
morfologica, ma perchè la divinità è vista attivamente in rela­zione
ad una data sfera semantica, indicata dalla radice (cfr. s. v. Porci).

L'ipotesi dell'etnico, formalmente impeccabile, trova gravi
difficoltà: lo stesso etnico sarebbe riferito a due divinità diverse
in due luoghi di versi (Este e Lagole) ; in più a Lagole sarebbe
attribuito alla divinità il cui nome in -ati- presenta, sempre
secondo il Lejeune, la struttura di etnico : dunque una « dea di
*Trumusio, dea di *Tribusio » sarebbe anche « dea di *Saina » come
Reitia. Il Lejeune, escluso (sulla base della let­tura s´a.i.-) il
confronto con latino sanare prospetta un'ipotesi a largo l'aggio.
Nella lista di Plinio (ITI, 69) di popoli del Lazio che al suo tempo
non esistevano più, sono menzionati anche i Manates, Macnates
(varianti : Macnales Maenales) ; sulla scia di a. Rosemberg per cui
nel passo vi sarebbero interpolazioni e duplicazioni (3), rifacendosi
alla notizia di Verrio Fiacco (in Festo, 474 L) che riporta un passo
dello XII tavole ove si associano i Sanates e i Forcti (4), e
richiamandosi pure a Gellio (XVI, 10) che cita dei Sanates, il L.
ritiene che la forma autentica nel testo di Plinio sia con s- e che
il presunto errore (M) « ...s'éclairera si l'on suppose qu'une des
sources indirectes de Pline était un texte ortho­graphiant le nom des
Sanates avec un s´ initial, de forme M : probable­ment une inscription
du V siècle apposée au lieu des réunions de la Ligue Latine; une
lecturc fautive (s' pris pour m) serait à l'origine de la tradition
recueillie par Pline ». Un legame col venetico, sarebbe reso
probabile dai seguenti fatti : la designazione di una popolazione da
una qualità fisica o morale (Forctes-Sanates) « est fréquente dans le
domaine qui va des Celtes aux Illyriens » ; nella stessa lista sono
menzionati i Venetulani; il tipo Rutuli (*-dh- > -t-) si ritroverebbe
nel Veneto in barbaruta e Rutuba; è costante s´ in S´ainatei e la
speciale qualità della sibilante è provata dal nome proprio Zanatis
in area illirica (CIL III 14620) ; e infine « Entre Sain- (Vénétie)
et San-/Zan- (Latium, Dalmatie) se manifeste une opposition qui
ressortit aux alternances bien connues dans l'onomastique illyrienne,
entre ai et a... » ; la nota si conclude (p. 224) con un intervento
filologico sul testo pliniano. L'ipotesi non è con­vincente per la
laboriosità della dimostrazione (che tra l'altro si basa su ripetute
correzioni al Lesto) e specialmente perché accettando l'alter­nanza
ai/a toglie automaticamente il proprio punto di partenza: la lettura
suina- come impedimento al confronto con sanare. anche all'intero di
questo circolo, sia ai/a: che s´- si giustificano nell'area venetica
non in area latina, in cui, se pure si devono accettare le correzioni
paleografiche al testo di Plinio, si deve ricorrere a una spiegazione
fuori del Lazio e si potrà, al massimo, vedervi un altro indizio dei
legami tra venetico e la­tino: quindi il venetico costituisce il prius
nella dimostrazione.

Meglio il Whatmough [75], che confronta il gruppo del latino sanare
(v. Walde-Hofmann II, p. 476 s. v. sanus) che non ha etimologia sod­
disfacente fuori dell'italico. La difficoltà posta da -ai- si può
appianare seguendo il Krahe [139], con l'alternanza -a-/-ai- rilevata
nella zona ve­neto-illirica e con la non opposizione grafica, indice
di uno status fono­logico particolare, di .i./h che poteva, in alcuni
casi generare un'alterna­tiva ai/a (con possibili fenomeni di grafia
inversa : v. pp. 17-18). I dati archeologico-culturali sono a favore
di questa spiegazione : i san­tuari di Este e Làgole presentano
caratteristici ex voto di culti latrici (5) e, sia Reitia Pora (cfr.
s. vv.) di cui S´. è epiteto, sono divinità guaritrici. Singolare la
forma s´a.i.n.s´.re.i., ove il Lejeune vede una ripetizione dei nomi
in forma abbreviata : s´a.i.n(ate.i), s´(a.i.nate.i.) re.i.(tiia-i.)
re.i.tiia.i.; noi pensiamo a una speculazione magica, una specie di
incastro formulare (s´a.i.n.s´.se.i. ha lo stesso numero di lettere
del corretto s´a.i.na­te.i). Un lapsus sarà s´.i.naþe.i. piuttosto che
un indizio di monottonga­zione (nel qual caso .i. sarebbe puntato
contro le regole : analogo caso in r.i.tiia.i.).

In relazione col teonimo sembra essere il citato Zanatis di un
epitafìo dalmata (CIL III, 14620), in cui è interessante lo Z che
nota una sibilante speciale, in parallelo a s´ delle iscrizioni (il
Krahe, autore del confronto, ne ricava senza ragione l'inesistenza di
s- iniziale). Interessante sarebbe il confronto di Sinatì epiteto di
Marte in una dedica del Norico (CIL III, 5320 Seckau) se la prima
lettera non fosse di dubbia lettura (Mommsen legge l'intera
iscrizione: Marti Latobio Harmogio Toutatì Sinati Mogenio C Val[
]alerinus ex voto) (6).

(1) Brugmann, Grundriss, II, 1, pp. 428 sg. ; Schwyzer, Gr. Gr. I,
pp. 504-6; Chantraine, Formation, pp. 275 sg. ; Wackernagel-
Debrunner, II, 2, pp. 622 sg.; Benveniste, Noms d'agent et noms
d'action en indo-euroopéen, Parigi 1948 (spec. « Noms d'action », pp.
64-112).
(2) Devoto, Scritti, pp. 91, 257-9; Origini, p. 311.
(3) Rosenberg, Zur Geschichte des Latinerbundes, «Hermes» LIV
(1919) pp. 113-173, spec. 127 sg.
(4) Per i nomi Walde Hofmann I, p. 535 (s. v. fortis) II, p. 474 (s.
v. Sanates) ; Ernout-Meillet, pp. 249-250 (s. v. fortis), 594 (s. v.
sanus).
(5) Spec. Ghirardini, [35] ; Whatmough, [75] ; Battaglia, Riti, culti
e divinità delle genti paleovenete, «Boll. mus. Civico di Padova»,
1955, pp. 1-50; Id., in St. di Venezia I, pp. 138-144; Pittioni,
P.-W., Suppl. IX, coll. 309 313 («Este-Kultur»: c. Weihefunde) ; De
Lotto, Una divinità sanante a Lagole, Belluno 1961.
(6) Toutati richiama teuta[ di Lagole : il significato pare
trasparente nel teonimo. Sorge però la possibilità che la menzione di
Lagole, possa essere completata col nome divino invece che col
semplice teuta : la struttura del formulario rende tuttavia poco
probabile l'ipotesi.

Ernout-Meillet
saeuus (saeuos), -a, -um: emporté, furieux, féroce.
Dérivés et composés:
saeuio:,-i:s (ancien et fréquent, mais semble évité par César, qui
n'en a qu'un ex., et par Cic. qui n'emploie que saeuus et
saeuitia);
saeuitia (usuel et class.),
saeuita:s (tardif et rare),
saeuitu:do: (´á. Pl.);
saeuidicus (Ter.);
de:saeuio:, poét. (époq. impér.):
1° être en fureur; 2° cesser d'être en fureur (Luc. 5, 304);
exsaeuio: : cesser d'être en fureur (T.L.30,39,2);
in-, per-, re-saeuio:.
Même diphtongue en a, et même suffixe que dans beaucoup d'adjectifs
désignant un défaut: aeger, laeuus, scaeuus, caecus, claudus, ualgus,
etc. Le sens premier était peut-être "à l'aspect (au visage)
effroyable", cf . gr. a`iané:s. ancien (Liv. andr.), surtout
poétique. Non représenté dans les l. romanes.
On a rapproché lett. sievs "cruel"; quand les adjectifs de ce genre
ont un correspondant, ce qui est le cas de laeuus, scaeuus, caecus,
l'extension en est faible.

sa:gus, -a, -um: surtout au fém. subst. sa:ga "sorcière";
sa:gio:, -is, -i:re; peu usités et remplacés par leurs composés plus
précis prae­sa:gus, praesa:gio:, -i:s, d'où praesa:gium; et à basse
époque praesa:go:, -a:s;
saga:x, -a:cis, ancien (Enn. ), fréquent et class.,
saga:cita:s, -ter;
et peut-être sagana qu'y rattache Priscien, GLK II 120, 21, mais qui
est attesté seulement comme nom propre.
Le sens est défini par Cic.Diu.1,31,65 : sagire sentire acute est; ex
quo sagae anus, quia multa scire uolunt, et sagaces dicti canes. Is
igitur qui ante sagit quam oblata res est, dicitur praesagire, i.e.
futurum ante sentire. Le sens général est "avoir du flair", cf. sagax
nasum habet, Pl.Cu. 110b; uultures sagacius odorantur, Plin. 10,191,
etc. Pour l'alternance, cf. conta:gium et tagax, di:cere et dicax.
Praesa:ga est demeuré en français, où il désigne un oiseau de mauvais
présage, l'orfraie, dite aussi fresaie, M.L.6723.
La racine *sa:g-, *s&g- a dû fournir un présent radical athéma­tique,
à en juger par l'opposition entre lat. sa:gio: et irl. saigim "peto:,
adeo:" (avec subj. sás-). Le grec s'est tiré d'affaire en em­ployant
le type itératif: dor. hagéomai, att. he:gou~mai "je conduis, je
dirige en qualité de chef" (aor. he:ge:sáme:n). On ne peut déterminer
si le type germanique de got. sokja "je cherche" répond à celui de
lat. sa:gio: ou à celui de gr. he:gou~mai,. Cette racine n'est pas
attestée dans les dialectes orientaux de l'indo-européen. Sa:gio:
serait un terme de chasse du sens de "quêter" appliqué au chien, on
serait passé à celui de "avoir du nez".

sacer, -cra, -crum (ancien sakros attesté dans l'inscr. du Forum CIL
I2 1, cf. aussi sacro:-sanctus; sacer est à sancio: à peu près comme
-tagro- dans in-teger à tango.
Pas de comparatif (c'est sanctior qui en tient lieu);
superl. sacerrimus (rare, arch. ).
A coté d'un thème en -o/e-, qui se retrouve en osco-ombrien:
osq. sakoro (qui semble féminin), ombr. sakra "sacra:s",
a existé un thème en -i- *sa:kri-, bien attesté par osq. sakrím
"hostiam" (abl. sg. sakrid, acc. pl. sakrinas et ombr. sakre "sacrum"
(nom. acc. sg. n. ), avec abl. pl. sacris , etc. conservé en latin
dans la langue religieuse, notamment dans l'ex­pression sa:crem
porcum, sa:cre:s porci qu'on trouve chez les archaïques. cf. Fest.
420, 26sqq.; dans Rud.1208, Plaute a la scansion sa:cre:s, sûres pour
la longue, cf. lat. a:cer, a:cris, en face de gr. ákros.
Ce qui est sacrum (ou sacre) s'oppose à ce qui est profa:num et qui
est sacrum appartient au monde du "divin", quicquid quod deorum
habetur suivant l'expression de Trebatius (chez Macrobe II 3,2), et
diffère essentiellement de ce qui appartient à la vie courante de
hommes; on passe du sacer au profa:nus par des rites définis, et le
deux catégories sont bien tranchées. Le sens de sacer diffère de
religio:sus (distinction artificielle dans Gaïus, Inst.23, sacra
[res] sunt quae dis superis consecratae sunt; religiosae quae di
manibus relictae sunt). La notion de sacer ne coïncide pas avec celle
de "bon" ou de "mauvais"; c'est une notion à part. Sacer désigne
celui ou ce qui ne peut être touché sans être souillé, ou sans
souil­ler; de là le double sens de "sacré" ou "maudit" (à peu près).
Un coupable que l'on consacre aux dieux infernaux est sacer (sacer
esto; cf. gr. hágios), d'où le sens de "criminel" (auri sacra fames);
cf. aussi sacer morbus = hier`a nósos (épilepsie), sacer ignis. Le n.
sacrum désigne toute espèce de chose sacrée: sacrum facere "accomplir
une cérémonie sacrée", d'où sacrificu:s, -fico:, -a:s (-fícor et
exsacri­fico:, Enn.), sacrificium ( cf. hierourgeo:, -gía),
sacrificulus (surtout dans l'expression rex sacrificulus, où -ficulus
semble être à -fico: comme bibulus, legulus à bibo:, lego:). V. plus
loin sacerdo:s, pour une forme plus ancienne du nom d'agent. au pl.
sacra, -o:rum "les céré­monies du culte" et le culte lui-même: s.
pu:blica, s. pri:ua:ta. -
ancien, usuel, non roman, où il a été éliminé par sanctus, qu'a
répandu l'Église.
Celt.: l'irl. a des mots d'Église: sacrail, sacarbaic, sacrifis;
sacramint; sacrista.
Autres dérivés et composés:
sacellum: diminutif du n. de sacer, substantivé dans le sens de
"petit sanctuaire", consacré à un dieu, contenant un autel, mais
dépourvu de toit d'après Fest. 422,15
sacra:­rium: endroit où l'on enferme les sacra (comme arma:rium/arma),
cf. Dig.1,8,9, "sanctuaire" ;
sacra:rius m.: sacristain;
sacra:nus, -a,-um: -i... Reate orti... dicti sacrani quod uere sacro
sint natí, P.F. 425,1 (cf. pri:ma:nus, pri:mus);
sacrima: ...mustum quod Libero sacri­ficabant, P. F. 423,1 (cf.
kállomos en face de kalós);
sacro:,-a:s: consacrer (cf. les formes osques du verbe fréquent, e.g.
sakarater "sacra:tur", avec le dérivé osq. sakaraklúm "sacellum");
d'où le composé d'aspect déterminé co:nsecro: (co:nsacro:, M.L.2155;
celt.: irl. cosecraim, britt. cy-segru), et ses dérivés
co:nsecra:tio: et à basse époque co:nsecra:n(e)us: summúste:s;
de:sacro: (de:secro:), époque impériale (contamination de co:nsecro:
et de:dico:);
exsecro: (et exsecror): exécrer, maudire;
ob-secro:, "obsecrare est opem a sacris petere", P.F.207,7 "prier au
nom des dieux", avec tmèse ob uo:s sacro:, souvent formule de la l.
familière; employé en incise, avec valeur affaiblie, cf. Pl. Aul.733:
quo, obsecro, pacto esse possum, v. Bryant, Harv. Stud. 9, 133 et s.,
Wackernagel, Verm. Beitr. z. Griech. Sprachk. 24, d'où exobsecro:
(Pl.);
resecro:: resecrare soluere religione, utique cum reus populum
comitiis orauerat per deos ut eo periculo liberaretur, iubebat
magistratus eum resecrare. Plautus (Aul. 684): "resecroque, mater,
quod dudum obsecraueram"; rare et archaïque.
Cf.M.L.7493 sacra:re, 7494 sacra:tum, et 7494a *sacrista (avec
suffixe grec).
De sacro: dérive en outre: sacra:mentum, terme de droit: "dépôt fait
aux dieux d'une certaine somme comme garantie de sa bonne foi, ou de
la bonté de sa cause dans un procès"; cf. Varr., L.L.5,180, ea
pecunia quae in iudicium uenit in litibus, sacramentum a sacro; qui
petebat et qui infitiabatur, de aliis rebus uterque quingenos aeris
ad pontem (l. pontificem?) deponebant, de aliis rebus item certo alio
legitimo numero assum (l. actum ?); qui iudicio uicerat, suum
sacramentum e sacro auferebat, uicti ad aerarium redibat. Cf. Festus
468, 16sqq. Il est probable que ce dépôt s' accompagnait d'une
prestation de serment (iu:siu:randum); de là le sens dérivé qu'a pris
le mot, cf. Fest.466,2sqq. : sacramento dicitur quod <iuris iurandi
sacratio> ne interposita actum <est>, et P.F.467,3. C'est ce sens de
"serment" que le mot a pris dans la l. militaire, où il s'employait
d'abord dans une acception différente de iu:siu:randum, le
sacra:mentum étant personnel et volontaire, le iu:siu:randum étant
collectif et imposé, cf. T.L 22, 38, 2-5. Dans la l. de l'Église
sacra:mentum a désigné tout objet ou tout acte ayant un caractère
sacré : mystère, révélation, sacrement, etc. M. L. 7492;
sacra:menta:rium: sacramentel.
sacerdo:s,-do:tis c. (le fém. sacerdo:ta est récent, plus récents
encore sacerda CIL VIII 3307,10575, fait peut-être sur sacerdo:s
prononcé sacerdus; et sacerdotissa (cf. abbatissa): celui qui
accomplit les cérémonies sacrées, prêtre en général, cf. Varr.,
L.L.5,83 sacerdotes uniuersi a sacris dicti. Passé en celt.: irl.
sacart, sacerdote, et en germ.: v.angl. sacerd. - Dérivés:
sacerdo:tium, sacerdo:ta:lis; sacer­do:tula. - De sakro-dho:-ts, le
second élément appartenant à la racine *dhe:-, v. facio: et -do:; le
vocalisme du timbre 0 du second terme de composé est ancien. Thème
consonantique: le gén.pl. est sacerdo:tum; pour la formation, cf.
locu-ple:s, ple:-t-is. Vieux composé de type indo-européen, à côté
duquel s'est formé en latin même le type récent sacrifícus, voisin de
sacrificium. V. H.Pedersen, MSL 22,5.
sacrilegus (cf. lego: et la citation de Non.332,23) qui du sens de
"voleur d'objets sacrés", hierósulos, a passé au sens plus largo de
"sacrilège, profanateur", sacrilegium (époq.imp.); sacrifer (Ov.);
sacricola ( époq. impér.): victimaire, prêtre.
sacro:sanctus (o:, Orientius 2,830; confirmé par la prose métrique,
cf. Cic. Balb. 32 si quidem sacrosanctum est; et la "tmèse", sacroque
sanctus Plin.7,143; v.Havet, Man. §322): adjectif appartenant à la
langue du droit et de la religion, qualifiant une personne ou un
objet dont le caractère sacré ou inviolable a été solennellement
reconnu, cf. F. 422,17: -m dictum quod iure iurando interposito est
institutum, si quis id uiolasset, ut morte poenas penderet, et
Rosenberg, Hermès 48,3. ancien juxtaposé formé de sacro: (abl.
instrumental de sacrum) + sanctus (cf. ue:ri:similis). Les
explications par un couple asyndétique sacro(s) sanctus dont les
éléments se seraient soudés, ou par un composé dont le premier
élément serait la forme du thème nu sacro- sont contredites par la
quantité longue de l'o de sacro:-, et soulèvent du reste d'autres
objections. Toutefois, Ter­tullien recrée sacersanctus.

sancio:, -is, sanxi: (sanci:ui:, Pomp. ), sa:nctum (sanci:tum Lucr.),
-i:re:
terme de la l. religieuse et politique "rendre sacré ou invio­lable"
s. le:gem; par suite "établir solennellement (par une loi, etc)" s.
le:ge ut, ne:; par suite "ratifier, sanctionner". alors que sacer
signifie en certains cas "voué aux dieux infernaux, exécrable, etc.",
sancio: a aussi le sens de "proclamer comme exécrable", d'où
"interdire solennellement", puis "punir": s. capite, supplicio:,
execra:tio:nibus pu:blici:s. De là: sa:nctus "rendu sacré ou
inviolable, sanctionné", cf. Ulp. Dig.1,8,9 où la différence avec
sacer est bien établie: proprie dicimus sancta quae neque sacra neque
profana sunt, sed sanctione quadam confirmata, ut leges sanctae sunt,
quia sanctione quadam sunt subnixae. Quod enim sanctione quadam
subnixum est, id sanctum est etsi deo non sit consecratum (cette
différence de sens entre sacer et sanctus n'exclut pas la parenté
initiale; l'état de sa:nctus est obtenu par un rite de caractère
religieux; sacer indique un état, sa:nctus le résultat d'un acte);
puis sa:nctus a reçu le sens du gr. hágios, qui, lui-même, chez les
juifs et les chrétiens, a reçu 1e sens de l'hébreu qo:d&s^; du sens
de "consacré, établi, consolidé par un rite", on est passé ainsi à un
sens essentiellement moral: "vénéré" et "vénérable" , "vertueux", et
dans la l. de l'Égl. "saint". Sa:nctum n. "sanctuaire" s. sa:ncto:rum
(rendant t`o hágion, t`a hagia to:~n hagío:n). Mais, dans le latin
classique, sa:nctus est encore loin de cette valeur toute morale;
chez Cicéron et Virgile, sa:nctus est dans une période de transition.
Dérivés: sa:nctio: f. : sanction, sa:nctor (Tac.),
sa:nctita:s "inviola­bilité" et "sainteté",
sa:nctitu:do:, sa:nctimo:nium, -mo:nia:lis, sa:nctua:rium (époq.
impér. pour sacra:rium),
sa:ncte:sco: (acc),
et dans la l. de l'Égl. sa:nctifícus, -fico:, -ficium, -fica:tio:,
etc.
Cf. M. L. 7569 sanctus, 7567 sanctifica:re, 7568 sanct.ita:s
[celt.: irl. sant, saith; britt. sanct, sanctáir, mots savants],
tous mots qui ont pénétré dans les l. romanes par l'intermédiaire de
l'Église.
Sancus, -u:s: Semo Sancus = Dius Fidius. Epithète de Jupiter "qui
sanctionne", sans doute ancien abstrait "le sanctionnement" (le gén.
est sancu:s, cf. plus bas, sous sanqua:lis), d'origine sabine d'après
Varr., L.L.5,66, cf. Goetz-Schoell ad loc. De Sancus dérive
l'adjectif Sanqua:lis:
— porta appellatur proxima aedi Sancus, P.P.465,6;
— auis, quae ossifraga dicitur, P.F.421,1.
La forme de sancio: est pareille à celle de uincio:; le perfectum
sa:nxi:, l'adjectif en -to-, sa:nctus, sont du même type que uincio:,
uinctus. Comme dans lit. jùngiu en face de lat. iungo: (v. ce mot),
il y a ici à la fois l'infixe nasal, qui s'est largement développé en
latin et en baltique, et le suffixe de présent -ye/-i(:)-. L'a: de
osq. saahtúm "sanctum" a l'air de supposer un ancien *sankto- en
italique; l'ombr. a de même sahatam "sanctam". Les objections de
M.Kretschmer, Glotta, 10, p.155 et suiv., ne prouvent pas contre le
rapprochement de sacer et de sancio:, que M. Kretschmer n'écarte du
resté pas abso­lument, et elles aboutissent à priver sancio: et Sancus
de toute étymologie. Du reste, de même que l'on a lat. con-iuga:re en
face de con-iungere, l'osque a sakahíter "sacrifica:tur", à côté de
saahtúm, en face de lat. sancio:. Un présent à nasale infixée tel que
sancio: indique le passage à un état de choses nouveau. Si, comme il
semble, sacer, sancio: est apparenté à hitt. s^akla:is^, s^aklis^
"loi, rite", le latin et le hittite auraient en commun une racine
servant aux idées religieuses et juridiques, du plus ancien
vocabulaire indo-européen. En dehors de ce rapprochement, il est
impossible de trouver un cor­respondant précis au groupe italique de
lat. sacer, sancio:. On rap­proche v.isl. sótt "entente, compromis",
qui est de sens différent et où le caractère de la consonne finale
n'est pas discernable. Ce mot Scandinave ne doit pas être séparé du
groupe de got. sakan qui s'applique à toute discussion, à toute
querelle de caractère verbal et, à en juger par le sens précis de
v.isl. so,k, v.sax. saka, v.h.a. sahka, etc., se rapporte
originairement à une "affaire judiciaire", à un "procès", donc à
quelque chose qui se règle au moyen de formules. Un rapprochement
avec le groupe de sacer, sancio: est donc possible. Le fait que le
germanique a le représentant k d'un ancien g en face de k italique ne
fait pas difficulté: la forme du verbe sakan donne lieu de croire
qu'il s'agit d'une racine fournissant un présent aoriste radical de
type athématique, ce qui rendrait aussi compte de lat. sancio:; dans
ces racines, le flottement entre sourde et sonore finale arrive
souvent. Dès lors, rien n'empêcherait de rapprocher, d'autre part, le
groupe de grec házomai "j'ai un respect religieux pour", présent
dérivé dont la forme s'expliquerait bien dans une racine fournissant
un. ancien présent radical athématique, hágios "saint", hágnos "pur";
le rapprochement de ces mots grecs avec la famille indo-iranienne de
skr. yájati "il sacrifie" n'est bon ni pour la forme ni pour le sens.
Toutefois les trois groupes de lat. sancio:, de got. sakan et de gr.
házomai ne comportent pas de concordances de sens ni de formes assez
précises pour autoriser une affirmation. Il est curieux qu'aucun mot
pour la notion de "sacré" ne soit attesté pour l'indo-européen
commun: le vocabulaire proprement religieux varie beaucoup d'une
langue indo-européenne à l'autre.

sa:nus, -a, -um: sain, bien portant (de corps ou d'esprit).
Sou­vent joint à saluus.
L'adv. sa:ne: "d'une manière saine" s'emploie comme ualde: avec une
valeur intensive: sa:ne: sapere, puis avec toute sorte de verbes ou
d'adjectifs ou d'adverbes: sa:ne: metuere, sa:ne: bonus, sa:ne: bene,
s. sapienter; et, avec négation, haud, no:n sa:ne:. Souvent joint
dans la l. familière à un impératif qu'il renforce: i sane.
- ancien, usuel. Panroman, M.L.7584.
Dérivés et composés:
sa:nita:s: santé, M.L.7580
(d'où *sa:nitia:re, *sa:nito:sus, M.L.7581, 7581a);
sa:no:,-as: rendre sain, guérir (sens physique et moral, M.L.7566;
sa:na:tio: (Cic.),
sa:na:tor (Paul.Nol.),
sa:na:to:rius (Cass.),
sa:na:bilis (rare, mais class.) et i:nsa:na:bilis = aníatos;
con-, per-, prae-sa:no:, resa:no: (rares tous quatre et d' époq. impér.);
sa:ne:sco: (Col., Cels., Plin.) et resa:ne:sco: (d'après recru:de:sco:?);
sa:nifer (Paul. Nol.).
i:nsa:nus: malsain, malade; presque uniquement employé dans le sens
de "qui n'est pas sain d'esprit, insensé, fou" et aussi "qui rend
fou" (i:nsa:na herba, i.e. laurus); cf. i:nsa:ni: monte:s traduisant
le nom grec d'une montagne de Sardaigne t`a manómena óre:. i:nsa:num,
i:nsa:ne: s'emploient aussi comme adverbes de renforcement, cf. notre
"furieusement", dans la l. familière.
Dérivés: i:nsa:nia, mot courant; M.L.4455,
i:nsa:nita:s (rare, mais dans Cic.Tusc.3,4,8 et 3,5,10, Varr. ap.
Non. 122, 24);
i:nsa:nio:, -i:s,
ue:sa:nus, ue:sa:nia, ue:sa:nio:, -i:s: même sens que insa:nus; cf.
ue:cors.
A sa:nus les anciens rattachent aussi Sana:te:s, cf. Fest. 474,22 :
Sanates dicti sunt qui supra infraque Romam habitauerunt. Quod nomen
his fuit quia, cum defecissent a Romanis, breui post redierunt in
amicitiam, quasi sanata mente. Itaque in XII (1,5) cautum est ut idem
iuris esset Sanatibus quam Forctibus, i.e. bonis, et qui numquam
defecerant a P.R. Sans doute étymologie populaire; il s'agit
vraisemblablement d'un nom propre du type arpina:s, cf. forctis s.u.
fortis. Aucun mot pareil ne se retrouve ailleurs. Un rapprochement
avec gr. iaíno: "je guéris", etc., ne s'obtient qu'à l'aide
d'hypothèses arbitraires. Pour irl. slán, v. sous saluus.

satis adv. (forme abrégée sat de *sate issu de sati sans s final, cf.
satin de *sati(s)n(e), comme uiden): assez.
Souvent joint à esse, habe:re: sat est, sat habeo:. Peut avoir un
complément au génitif: satis uerbo:rum, etc. Muni d'un comparatif
satius employé dans la l. courante avec le sens de potius: satius est
"il vaut mieux". - ancien (Enn.), usuel, classique. Représenté
seulement en ancien fr. set, M.L. 7617; remplacé par ad satis,
panroman, sauf roumain, M.L.199.
Satis s'unit à un certain nombre de verbes pour former des
juxtaposés, dont le plus usité et le mieux soudé est satisfacio:
"donner satisfaction à quelqu'un" (formes savantes en roman,
M.L.7618), d'où satisfactio:; d'après ce mot, satisacceptio:,
satisdatio:, termes de la l. du droit. De sat a été formé satago:,
-is usité surtout dans le sens de "en avoir suffisamment à faire"
terme de la l. militaire, litote du genre de labo:ra:re "être à
l'ouvrage", cf.Caton ap. Charis. GLK I 218,2 iam apud uallum, nostri
satis agebant; auct.B. afric .78,7 Caesar alteram alam mittit qui
satagentibus celeriter occurrerent; par suite "être affairé, se
démener" (= poluppagmonéo:), d'où satagius dans Sén. Ep. 98, 8.
Dérivés de satis:
satieta:s: abondance, suffisance, satiété. Comme il n'y a pas
d'adjectif *satius, le dérivé satieta:s doit être formé
analogiquement, peut-être sur ebrieta:s. De satieta:s est issu, sans
doute par haplologie,
satia:s, -a:tis- (n'est ni dans Cic. ni dans César; arch. et
postclass., employé par Lucr. pour éviter le tribraque de satieta:s);
satio:,-a:s: rassasier, satisfaire (premier ex. dans Cic);
satie:s, -ei f. (Pline, Juvencus);
satia:te:, satianter; exsatio: (époq. imp.);
i:nsatia:tus, i:nsatia:bilis "insatiable", traduction du gr. áatos et
"dont on ne peut se rassasier",
i:nsatia:biliter.
V. aussi M.L.7919 satium, et assatia:re, M.L.717.
Irl. saith "satieta:s".
A satis se rattache:
satur, -ra, -rum: rassasié (surtout de nourriture).
- ancien (Carm. Fr.Aru., Pl.), usuel. M.L.7621.
Satur est sans doute pour satu-ro-s, dérivé à l'aide du suffixe -ro-
d'un thème en -u- *satu-.
Un féminin satura (scil. lanx), puis satira ( époq.. impér. ),
substantivé a désigné une macédoine de fruits, de légumes, un mets
composite, cf. Varr., Quaest. Plaut. II dans GLK I 486,7, et
P.F.417,1; et par dérivation en littérature, une pièce de genres
mélangés (cf. notre mot "farce"), pour s'appliquer spécialement
ensuite à la satire d'Horace ou de Juvénal. C'est du moins
l'explication des anciens qui a chance d'être une étymologie
populaire; sur une origine étrusque du mot, v. F.Muller, Zur Gesch.
d. römischen Satire, Philol.78 (1923), 230sqq. L'expression per
saturam s'applique à une loi de caractère composite; sur le sens et
l'emploi de l'expression, v. Hammarström, Eranos, 15 (1927), 37 et
suiv.
De satur dérivent:
saturita:s (auquel la prose classique préfère satieta:s),
saturo:, -a:s doublet de satio:, demeuré en roman, M.L.7622,
et les dérivés
satura:men (Paul. Nol.), satura:tio:,-tor, tous de basse époque;
exsaturo:,-tura:bilis, i:nsatura:bilis.
Il en existe aussi un diminutif familier satullus (Varr.) avec un
dénominatif satullo: (id.), qui est demeuré dans les l. romanes, fr.
saoul, etc., M.L.7620. Le diminutif satillum qu'on lit dans
Pl. Tri.492 est peu sûr (salillum, Lindsay avec les mss. palatins).
sati-, dans satieta:s et satia:re, et aussi dans sat est, etc., et
satis ont l'air de formes adverbiales, cf.. pour la finale, gr.
kho:rí: kho:rís, etc., ou lat. sine en face de még. ánis. Le
vocalisme de satis est le même que celui de hom. á-atos "insatiable"
à côté de l'adverbe háde:n "à satiété"; got. saþs "rassasié", irl.
sathech "ras­sasié". Le degré plein a: de la racine figure dans irl.
sáith "satiété", got. du soþa "pr`os ple:smóne:n", ga-soþjan
"khortásai" et lit. sotùs "rassasiant, rassasié", sótis "fait de
rassasier", v.pruss. sa:tuinei "tu rassasies". Le grec seul conserve
des formes verbales: hom. á:menai (infinitif supposant un thème
radical de type athématique), asai, á:sasthai, á:sein, toutes formes
où a: est conservé.
— Les formes à -s- désidératif ont fourni des dérivés:
irl. sásaim "je rassasie" et, avec a,
gr. (ion. et lesb.) asáo: "je rassasie", áse: "acte de rassasier".
- Lit. sotùs et lat. satur indiquent une forme à -u- après -t~. Il y
a un -u~ ajouté à la racine directement: arm. y-ag "satiété", y-agím
"je me rassasie" (où g doit reposer sur un ancien w), v. sl. sytU
"ras­sasié", do syti "à satiété", ved. á-sinvan (composé du participe
d'un présent à infixé nasal à thème si-n-u-), d'après quoi a été fait
asinváh. "insatiable" (ou inversement le composé á-sinvan d'après
asinváh.). Racine dont les formes verbales ne subsistent
qu'exceptionnellement et dont les représentants diffèrent d'une
langue à l'autre, en raison des éléments affectifs qui s'associent à
son sens, mais dont on entrevoit quelques formations anciennes. Les
formes à t: *sa:t-, *s&t-, y sont nombreuses; satis n'est pas isolé.

so:ns, sontis : coupable. attesté depuis Plaute et classique;
l'emploi adjectif est surtout poétique (cf. toutefois Pl.Cap.476 ...
sontes... condemnant reos). Rare dans la prose impériale. Contraire
i:nso:ns (ancien, mais évité par Cic. et Cés.). Dérivé : sonticus
usité seulement dans sonticus morbus "épilepsie", sontica causa
"excuse valable", cf. Fest. 372,3; sonticum morbum in XII (2,3)
significare ait aelius Stilo certum cum iusta causa; quem nonnulli
putant esse qui noceat, quod sonte<s> significat nocentes. Naeuius
ait (Com.128): "sonticam esse oportet causam, quam ob rem perdas
mulierem".
- Termes rares et techniques de la l. du droit.
So:ns a la forme du partic. présent de sum, cf. gr. ó:n, skr. sán
(acc. sg. sántam), v. sl. sy (nom. pl. so,s^te ), etc.; pour un
Latin, il n'y avait rien de commun entre so:ns et sum; mais sum n'a
pas conservé de participe, ce qui indique que l'ancien participe a dû
être affecté à un emploi spécial; et l'on ne connaît de participe que
pour des formes à préverbe: prae-se:ns, ab-se:ns. Le vocalisme o de
so:ns se retrouve dans euntem en face de i:ens et dans uolunta:s.
Quant au sens, il devrait s'expliquer par un usage juridique. En
vieil islan­dais, sannr signifie à la fois "vrai" et "coupable"; et le
groupe de v.sax. sundia, v.h.a. suntea a été employé à désigner le
"péché". En indo-iranien, le mot satya- "vrai" (skr. satyáh.,
av.haiþyo:, v. per­se has^iya) a une valeur religieuse. Pour expliquer
tout à fait le sens de so:ns, il faudrait connaître les anciennes
formules où figurait le mot; une valeur juridique est nette dans
sonticus?

sonticus: v. so:ns.

sentio:, -i:s, se:nsi:, -sum, senti:re:
sentir, éprouver une sen­sation ou un sentiment.
S'emploie seul ou avec un complément, cf. Lucr.4, 228 perpetuo
quoniam sentimus; et Cic. N.D. 3, 13, 32 omne animal sensus habet;
sentit igitur et calida et frígida et dulcia et amara... Se dit des
sens et de l'esprit; par suite "être d'un sentiment ou d'un avis", et
dans la l. juridique "exprimer un sentiment, décider, voter"; de là
sententia: façon de sentir, et aussi de penser ou "décision,
sentence". Correspond pour le sens à gr. a`isthánomai, comme se:nsus
à a`ísthe:sis; ainsi commu:nis se:nsus traduit é: koin`e:
a`ísthe:sis, se:nsibilis = a`isthe:tós, i:nse:nsibilis,
`anaísthe:tos. Sénèque écrit, Ep. 424,2: (uoluptatem) sensibile (=
a`isthe:tón) iudicant bonum, nos contra intelligibile (= noe:tón).
Usité de tout temps; panroman, M.L. 7824;
celt.: gall. synio, arm. senti.
Substantif dérivé *sentor, -o:ris "senteur" id. 7825.
Cf. aussi Sentia (Aug. Ciu. D. 4, 11).
A sentio: correspond un intensif-duratif en -a:-,
-sentor, -a:ris dans assentor (ad-) "partager l'avis de, approuver"
(souvent avec une nuance de flatterie qu'on retrouve dans les dérivés
assenta:tor, -tio:, -tiuncula).
Nombreux dérivés et composés:
sentisco:, -is (Lucr.): commencer à sentir;
se:nsus, -u:s m.: sens (organe; faculté de sentir); sensibilité;
sentiment, façon de sentir; pensée; signification (d'un mot, etc.),
M.L. 7822;
irl. seis, sians.
En rhétorique "phrase, période" (en tant qu'en renfermant un sens
plein), cf. Quint. 1, 8, 1: puer ut sciat ubi claudatur sensus; de là
se:nsiculus Quint. 8, 5, 14;
se:nsilis et inse:n­silis tous deux lucrétiens et faits sur des types
grecs, remplacés à l'époque impériale par
se:nsibilis, i:nse:nsibilis, d'où
se:nsibilita:s et inse:nsibilita:s (très tardifs);
se:nsua:lis, -ta:s, -ter (apul., Tert.), et
inse:nsua:lis, -ta:s (Cassiod., lat. eccl.),
se:nsa:tus et i:nse:nsa:tus (= `anóe:tos) Firm., Vulg.;
se:nso:rium Boèce, traduisant a`ise:thté:rion d'aristote;
se:nsifer (Lucr.),
se:nsificus (Macr.), -fico: (Mart. Cap., Claud. Mamert.).
se:nsim adv.: de manière à être senti, a été employé par restriction
dans le sens de "de manière à être seulement, c.-à-d., à peine,
senti", "légèrement, lentement" et en est arrivé à signifier
"insensiblement";
cf. Cic. Cat. M. 11,38. sensim, sine sensu aetas senescit.
-se:nsio:, -o:nis f. (n'existe que dans les composés as-, con-, prae-
se:nsio:).
sententia: uniquement employé des sentiments de l'esprit, et
spécialisé dans la l. du droit (cf. plus haut); et dans la l. de la
rhétorique au sens de "phrase", et en particulier "trait qui termine
la phrase", de là sententiola "petit trait". Dans la langue
philosophique traduit dóksa, cf. Cic. N.D. 1,30,85 selectae (Epicuri)
sen­tentiae quas appellatis kurías dókxas; et aussi gnó:me:; de là
senten­tio:sus (rare, mais class.) et
sententia:lis (tardif) = gno:mikós.
Ce substantif suppose sans doute un participe *sente:ns, non at­testé,
qui est à sentio: ce que pare:ns est à pario:; il y a là un reste de
thèmes radicaux qui indiquent l'antiquité du groupe de sent-.
J. Wackernagel, I.F.31,251 et s., et M.Niedermann (Mnemos., 3e sér.,3
[1936], p. 267 ) supposent toutefois sententia issu de *sentientia,
dont le premier i serait tombé par suite d'une dissimulation.
Senti:nus "per quem infans sentit primum",
Sentia "a sententias inspirando", noms d' indigitamenta cités par
Varron, v. Funaioli, Gramm. Rom. Fgm., p .241.
Composés de sentio::
adsentio: (et adsentior sans doute d'après adsentor): joindre son
sentiment à celui d'un autre, donner son assentiment à; d'où
asse:nsio:, -sus (qui traduit dans la l. philos. sugkatáthesis, cf.
Cic. Acad. 2,37), -sor;
adsentiae CGL V 14,14 (haplo­logie de *ad-sententiae?),
assenta:neus (Gloss.).
co:nsentio:: 1° être du même avis (= homonoéo:), décider unanimement;
2° sentir en même temps (traduction dans la l. philos. de sumpáskho:,
sunaisthánomai);
co:nse:nsio:, co:nse:nsus (plus fréquent);
co:nsenta:neus;
dissentio: (-tior dans Prisc. GLK II 339, 12):
être d'un sentiment ou d'un avis différent; être incompatible avec;
disse:nsio:, qui dans la l. technique traduit skhísma, dikhostasía;
dissenta:neus;
per-sentio: (-sentisco: Pl., Tér., Lucr. qui a aussi le simple
sentisco:);
prae-, pro:- (arch. ), sub- (arch., cf. suboleo:) -sentio:.
On rapproche irl. sét, gall. hynt "chemin" et got. sinþa dans ainamma
sinþa "une fois", ga-sinþa "compagnon de voyage", cf. v. h. a.
sindo:n "voyager", parce que v. h. a. sinnan, qui semble appartenir à
ce groupe signifie "voyager, tendre vers, penser à" (all. sinnen).
Simple pos­sibilité, et vague, puisque hors du latin on n'a qu'un
substantif avec son dérivé. On rapproche de plus un av. hant-, mais
les deux passages de ga:tha:s cités par Bartholomae sont obscurs;
arm. &nt` anam "je cours", qui pourrait être rapproché, a un ancien
-th-, mais le sens est différent. En somme rien de clair.


de Vries
saka schw V 'anklagen, streiten, ver­letzen, beleidigen',
nisl far norw aschw saka
— ae sacian, afr sakia, as ant saco:n, mnl ontsaken, mhd sacken neben
st V. got sakan, ae sacan, afr seka, as sakan, mnd mnl saken, ahd
sahhan
— air saigim 'suche',
lat sa:gio: 'spuren, ahnen',
saga:x 'scharfsinnig' (IEW 876)
— vgl sakna, sekr, sokn, sœkja und so,k

sanna schw. V. 'beteuern, versichern' (< urn. *sanþo:n),
nisl. far. schw. sanna, nda. sande.
— > me. sannen (Bjorkman 172, nur in Orm.);
> shetl. sand, sadna.
— ae. geso:ðian 'bekräfti­gen, beweisen',
ahd. ist sandonti 'testatur'.
— abl. von sannr, saðr adj. 'wahr, schuldig', (< urn. *sanþa-),
nisl. far. sannur, nnorw. schw. sann, nda. sand.
— > lpN. sadni:s (Thomsen 2, 213)
— ae. as so:ð, ahd. sand.
— ai. satya- 'wahr', abl. von sant-, sat- 'das seiende; wesen';
vgl. lat. sons (gen. sontis) 'schuldig'
(die bed.entw. 'wahr' > 'schuldig' deutet enge germ.-lat. beziehungen
auf dem gebiete des rechtswesens an, vgl. sáttr).
— vgl. senna, syn, synd.

sáttr adj. 'versöhnt, einig' (< urn. *sahtaR),
nisl. fär. sáttur, aschw. satter, adä. sattær.
— > spät ae. seaht, saht 'Übereinkunft',
me. saht, sanht 'versöhnt' (Björkman 100).
— vgl. sætt.
Man vergleicht gewöhnlich lat. sanctus 'geweiht' (s. Much, Fschr.Hirt
2, 551) und folgert daraus nahe verwandtschaft des germ. lat. auf
gebiet des rechtswesens, vgl. sannr, dann zu lat. sacer 'geweiht' (WP
2, 448), die urn. grundform wäre danach eig. *sanh-taz.
— Oder zu
got. in-sahts 'aus­sage',
unsahtaba (für uberl. un­sahþaba) 'unbestritten'
(Mincoff, Afda 53, 1934, 231),
also zu got. sakan 'streiten' und weiter zu so,k (sáttr wäre dann
etwa 'wer sich, ausgestritten hat').

segja schw V 'sagen, mitteilen',
nisl norw segja, far siga, nschw saga, nda sige
— ae secgan, afr sega, sedza, as seggian, neben ahd sagen (s Mezger,
ANF 55, 1940, 209-222)
— lat inseque, gr énnepe 'sag an', lat inquam 'sage ich, (< konj
*en skwa:m 'mocht ich sagen'), akymr, hepp 'sagte', lit sekù
'erzahle', asl soc^iti 'anzeigen'
— vgl saga 1, so,gn und so,gull
Die idg wzl *sekW hat vielleicht neben der bedeutung 'sagen' eine
altere 'sehen, zeigen' gehabt, s dazu unter sjá

sjá 1 f. 'das sehen, sicht' in Zss. wie
ásjá 'aussehen, gestalt, aufsieht, hilfe',
umsjá 'fursorge',
nisl. -sjá, aschw. forsea 'voraussieht, umsieht'.
— ae. seo m , altfrank. si:a, as. ahd. seha 'pupille'.
— vgl. sjá 2.
— 2 st. V. 'sehen' (alter séa < germ. *sehwan, s. zur lautentw. E.
Olson aNF 31, 1910, 13-14, H. Pippmg SNF 12, 1921, Nr 1, 19),
nisl. sjá, far. sjá, síggja, nnorw. sjaa, nschw. da. se.
— got. saihvan, ae. se:on, afr. si:a, as. ahd. sehan.
— mir. ar-secha 'er sollte uns sehen', air. rose (<*pro-skwo-) 'auge'
(IEW 898).
— vgl. sága, sjáldr, sjándi, sjón, sýna, sýnn, sœi 2 und -sær 2.
Neben der bed. 'sehen, zeigen' steht eine andere 'sagen' (vgl.
segja). Man versucht beide auf eine urspr. bed. 'wittern, spüren'
zurückzuführen, die einerseits zu 'bemerken, zeigen', später aber
auch zu 'sagen' (etwa 'ankündigen) geführt hätte. H. Schröder (nach
einer mitteilung seines sohnes F. R. Schröder GRM 39, 1958, 309) geht
aus von einer basis *sekow; daraus sowohl *sekw wie auch *skow (vgl.
germ. *skawo:n in ahd. scouwo:n, nnl. schouwen 'schauen'. — Dagegen
Uhlenbeck PBB 29, 1904, 336, der Verwandt­schaft der Wörter 'sagen'
und 'sehen' ablehnt. Neben dieser idg. wzl *sekw steht eine andere,
die 'folgen' bedeutet (vgl. seggr); deshalb wurde auch erwogen *sekw
'sehen' damit zu verbinden; die bed. 'sehen' wäre aus 'mit den augen
folgen' entstanden. Man wird die beiden homonymen wur­zeln nicht gerne
trennen, umso­mehr weil die grundbedeutung von 2*sekw 'wittern,
spüren' sich nahe mit jener von 1 sekw 'folgen' berührt; sind beide
aus dem folgen der wildspur entstanden ? Es gibt noch andere etym.
versuche (s. Feist, Got. Wb. 405), die aber nicht überzeugen können.

syngja, syngva st. V. 'singen',
nisl. far. norw. syngja, nschw. sjunga, nda. synge.
— got. siggwan 'vorlesen', ae. singan 'vortragen, erzählen', afr.
siunga, as. ahd. singan 'singen'.
— gr. omphé: 'stimme', zur idg. wzl *sengwh 'religiös vortragen' (E.
Benveniste BSL 33 Nr 99, 134).
— vgl. so,ngr und sangran.

sœkja schw. V. 'suchen, besuchen, an­greifen, vor gericht bringen',
nisl. sœkja, far. norw. søkja, nschw. söka, nda søge.
— > ne dial. schott. sock 'untersuchen' (Flom 63).
— got. so:kjan, ae. sœcan, afr. se:ka, se:za, as. so:kian, ahd.
suohhen.
— lat. sa:gio 'spure auf, sa:gus 'scharfsinnig', air. saigim 'suche
auf, gr. he:géomai 'führe' (zweifelnd Mezger KZ 62, 1935, 259).
— vgl. saka.

TP:
Earlier I proposed that PIE the verbal root extension usually wrtten
*-ah2- or *-ax- is actually a participal ending similar to the
denominal individuating ending *-ax or *-ak-, now mostly used to
construct feminines, and that the extension is actually *an,W-. That,
I think is a good way of explaining this root, namely as *s-angW-, a
participial form of the verb *es- "be" (or rather "is deemed to be,
is considered to be by consensus", PIE is said to be copula-less, so
it doesn't need a "be" verb, cf. copula-less Russian, which for "is"
uses 'javljaetsja', which originally meant something else, I forgot
which. Cf. Latin *calamitas/catamitas, I proposed at some time in
June 2008 (or later? search function out of order) it was an *-anW-
extension of *kad- "fall", so that kalan,W /katan,W- "beaten", thus,
with the same suffix or stem extension -an,W- (a ppp. type of
suffix?), we get with the "is (considered to be)" verb *es-: (e)s-anW
(e-s-an,W-t-?). Voilà, Latin sons, which presumably at first would be
used only in a construction with the name of a perpetrator of the
particular crime in eg. a predicative instrumental would mean
"considered to be" and then "a thief", if theft was the committed
crime, and ON sann "true" would in the beginning be used as a
sentence predicate, eg. 'sannt' (ie. "considered to be") is, that etc
etc. Church Slavic so,dU and Sanskrit samdhis., samdhá etc Vasmer
says is from *som- + *dhe:-, I'll correct the first element to
*san,W- "(collectively valid) judgment, verdict"), borrowed from God
knows where, perhaps the elusive Jenisejan-speakers, the Hsiong-nu?


Émile Benveniste
Indo-European Language and Society
latin — sacer: sanctus

We now turn to the study of an important group, that of the words
which still today in their modern form denote the idea of the
'sacred'.
Latin has two words, sacer and sanctus; their relation from a
morphological point of view is perfectly clear, but the problem lies
in the meaning of the terms.

The Latin word sacer includes the idea of what is most precise and
specific about the 'sacred'. It is in Latin that we find the clearest
distinction between the sacred and the profane; it is also in Latin
that we discover the ambiguous character of the 'sacred': consecrated
to god and affected with an ineradicable pollution, august and
accursed, worthy of veneration and evoking horror. This double value
is peculiar to sacer and it serves to distinguish sacer and sanctus,
for it does not appear in any way in the related adjective sanctus.

Further, the relation established between sacer and sacrificium opens
the way to a better understanding of the mechanism of the 'sacred'
and its connexion with sacrifice. This term 'sacrifice' which is
familiar to us, associates a conception and an operation which seem
to have nothing in common. How does it come about that 'sacrifice'
although it properly means 'to make sacred' (cf. sacrificium)
actually means 'to put to death' ?

On this fundamental implication the study of Hubert and Mauss has
thrown a vivid light (Hubert and Mauss, Essai sur la nature et les
functions du sacrifice in M. Mauss Oeuvres, vol. I, Paris, Ed. de
Minuit, 1968, 193-307). It shows that the sacrifice takes place so
that the profane world can communicate with the divine world through
the priest and by means of the rites. To make the animal 'sacred', it
must be cut off from the world of the living, it has to cross the
threshold which separates these two universes; this is the point of
putting it to death. From this comes the value, which we feel so
profoundly, of the term sacerdos, which goes back to *sakro-dho:t-s,
the second component being derived from the root *dhe:- 'make, put',
whence 'to make effective, accomplish' (cf. facio). The sacerdos is
the agent of the sacrificium, the one who is invested with powers
which authorize him 'to sacrifice'.

The adjective sacer goes back to an ancient *sakros, which has a
variant form in the Italic sakri-, which recurs in Old Latin in the
plural form sacres. This form *sakros is a derivative in -ro- from a
root *sak-. Now sanctus is properly the participle of the verb
sancio, which is derived from the same root *sak- by means of a nasal
infix. This Latin present tense in -io- with a nasal infix stands to
*sak- as jungiu 'to join' in Lithuanian does to jug-. The
morphological procedure is familiar.

But this morphological relationship does not explain the sense, which
is different. It is not sufficient to attach both sancio and sanctus
to the root *sak-, since sacer for its part has produced the verb
sacrare. This is because sancio does not mean 'to make sacer'. We
must define the difference between sacrare and sancire.

We have an instructive and explicit definition in Festus: homo sacer
is est quem populus iudicavit ob maleficium; neque fas est eum
immolari, sed qui occidit parricidi non damnaíur. a man who is called
sacer is stained with a real pollution which puts him outside human
society: contact with him must be shunned. If someone kills him, this
does not count as homicide. The homo sacer is for men what the sacer
animal is for the gods: neither has anything in common with the world
of men.

For sanctus (reference, may be made to a study which is still
valuable for its documentation: the dissertation by Link, De vocis
sanctus usu pagano, Königsberg, 1910) we have a definition in the
Digest I,8, 8: sanctum est quod ab iniuria hominum defensum atque
munitum est: 'a thing is sanctum which is defended and protected from
damage by men'; cf. Digest I, 8, 9 §3: proprie dicimus sancta quae
neque sacra, neque profana sunt, sed sanctione quadam confirmata, ut
leges sanctae sunt . . . ; quod enim sanctione quadam subnixum est,
id sanctum est, et si deo non sit consecratum: 'the term sancta is
properly applied to those things which are neither sacred nor
profane, but which are confirmed by a kind of sanction, in the way
that the laws are sanctae: what is submitted to a sanction is
sanctum, even though it is not consecrated to a god'. These are
circular defini­tions : a thing is sanctum if it is supported by a
sanctio, an abstract formed from the word sanctum. However, what
emerges is that sanctum is neither what is 'consecrated to the gods',
the word for which is sacer, nor is it what is 'profane', that is
what is opposed to sacer. It is something which, while being neither
of these two things, is affirmed by a sanctio, which is protected
against every kind of assault, like the leges sanctae. We must
understand that in the phrase lex sancta the adjective still has its
full force as a passive participle.

If the old divine name ampsanctus in Virgil (ampsancti valles) is
really to be understood as undique sancti (so Servius), that is
'sancti everywhere', the meaning of amb- being 'on both sides', this
would confirm the use of sanctus in the sense 'surrounded by a
defence, defended (by a limit or an obstacle)'.

In the expression legem sancire, the sanctio is properly that part of
the law which lays down the penalty which will be inflicted on the
person who transgresses it; sanctio is often associated with poena.
Consequently sancire is equivalent to poena afficere. Now in ancient
Roman legislation the penalty was inflicted by the gods themselves
who intervened as avengers. The principle applied in such a case may
be formulated as 'qui legem violavit, sacer esto', 'May he who has
violated the law be sacer'. Laws having this character were called
leges sacrae. In this way the law became inviolable, and this
'sanction' put the law into force. Hence came the use of the verb
sancire to indicate that clause which permitted the promulgation of
the law. The expression used was not only legem sancire, lex sancta
but also lege sancire, that is to say to make something inviolable by
means of a law, by some legal disposition.

In all these uses it emerges that sancire is to delimit the field of
application of a measure and to make this inviolable by putting it
under the protection of the gods, by calling down on the violator
divine punishment.

The difference between sacer and sanctus comes out clearly in a
number of circumstances. There is not only the difference between
sacer as a natural state and sanctus as the result of some operation.
One said: via sacra, mons sacer, dies sacra, but always murus
sanctus, lex sancta. What is sanctus is the wall and not the domain
enclosed by it, which is said to be sacer. What is sanctus is what is
defended by certain sanctions. But the fact of making contact with
the 'sacred' does not bring about the state of being sanctus. There
is no sanction for the man who by touching the sacer himself becomes
sacer. He is banished from the community, but he is not punished any
more than the man who kills him is. One might say of the sanctum that
it is what is found on the periphery of the sacrum, what serves to
isolate it from all contact.

But this difference is gradually effaced, as the old sense of the
sacred is transferred to the sanction: it is no longer the murus
which is sanctus, but the whole of the field and everything which is
in contact with the divine world. Now we no longer have a definition
of a negative kind ('neither sacred nor profane') but a positive
concept: a person be­comes sanctus who is invested with divine favour
and so receives a quality which raises him above the generality of
men. His power makes him into an intermediary between man and god.
Sanctus is applied to those who are dead (the heroes), to poets
(vates), to priests and to the places they inhabit. The epithet is
even applied to the god himself, deus sanctus, to the oracles, and to
men endowed with authority. This is how gradually sanctus came to be
little more than the equiva­lent of venerandus. This is the final
stage of the evolution: sanctus is the term denoting a superhuman
virtue.

Thus if we attempt a definition of what distinguishes sacer from
sanctus, we can say that it is the difference between implicit
sacredness (sacer) and explicit sacredness (sanctus). By itself sacer
has its own proper value, one of mystery. Sanctus is a state
resulting from a prohi­bition for which men are responsible, from an
injunction supported by law. The difference between the two words
appears in a compound which associated them: sacrosanctus, what is
sanctus by a sacrum: what is defended by a veritable sacrament.

It is not superfluous to insist on this difference, seeing the errors
committed by those who neglect it. a comparatist (Specht, Zeitschrift
für vergleichende Sprachforschung, 65, 1938, 137) cites the following
passage from Varro, De re rustica 3,17: 'Proinde ut sacri sint ac
sanctiores quam illi in Lydia . . .'and draws the conclusion that the
comparative of sacer is sanctior. Seeing that the comparative suffix
of Indo-European is added to the bare root, sanctior stands for
*sacior; the superlative sacerrimus offers no obstacle because this
Latin form does not go back to an Indo-European form. Such a line of
reasoning misapprehends the facts. If we had to take sanctior as the
comparative of sacer, the two adjectives would be wholly
interchangeable, since sacer was able to borrow the form of sanctus
to make its comparative. Must we therefore translate: 'as if they
(the fish) were sacred and more sacred here than in Lydia' ?
Evidently not: these fish are on the one hand 'sacred' and on the
other 'more sancti' than those of Lydia. Sacer is an absolute quality
and does not admit of degrees. at the most a supreme state is con­
ceivable; sacerrimus 'sacred above all else'. But sanctus is in the
domain of the relative: something may be more or less sanctum.

We find confirmation of this in another work by Varro, L.L. VIII, 77.
This time we have to do with a grammatical text, which is concerned
with the formation of comparatives and superlatives. Varro draws
attention to the differences presented in this respect by adjectives
which have the same form in the positive. He takes the three
adjectives macer, sacer, and tener: the superlatives are the same:
macerrimus, sacerrimus, tenerrimus. But he cites only two words in
the comparative, macrior and tenerior. If he was not in a position to
cite *sacrior (although he quotes sacer and sacerrimus) this is
because sacer had no comparative, because the sense of the word did
not admit of degrees, and this is confirmed by what we can gather
from the passage just quoted.


TP:

For an explanation of the Venetian gloss s´ainatei etc, look at
Festus' explanation of Sana:tes from sanus. He explains their return
to as Roman allies as a result of their mentes having become sanati,
ie. cured or healed. But considering that this root *san,-, or
whatever it is is used of publec verdicts, perheps we should
understand them as not having become sane, but as been publicly
declared sane. The existence of such a public act would make sense in
a society where quarantine was the only means at their disposal for
controlling epidemics. The semantic slide of Lat. sons "guilty" from
"being" (it is the present partc. of *es- "is") could be explained if
we assumed that PIE *es- meant not "is", but "has been publicly
pronounced to be" (as the result of some legal process). I am
reminded of the sentence which precedes verdicts by Danish courts:
'Thi kendes for ret', "Thus is-pronounced as right [or lawful]",
which makes the giving the verdict a speech act.

I've included 'saevus' on a hunch that it is from *san,W-os >
*sãIw-os and means "outlaw, (convicted) criminal"
That all the above entries are connected, especially Latin and
Germanic (Ernout-Meillet and de Vries both mention it) is pretty much
old hat in PIE linguistics. That the words in this set seem to have
root vowel -a- in both Latin and Germanic, makes them a member of the
thus-charaterized set of Latin-Germanic pairs Kuhn published. But the
level of detailed correspondence with the Jenisei languages was a
surprise to me.

Not that in several intances in Jeniseian, "permit" is derived from
the cognate of "say": Something is permitted, if it has been *said*
(to be permitted).

Many doublets her; I received vol. II L - S^, so I can't say anything
of the organisational principle by which the dictionary is organized.

Check for yourselves:


Heinrich Werner,
Vergleichendes Wörterbuch der Jenissei-Sprachen

sága4bæh:t´ (jug.) 'sagen':
diságaget´ < disagaaget´ 'ich sage',
Prät. disága­4oh:rget´ |
sága...get´ |
(8.1); Imp. ságarget'!, Pl. ságargen!;
mket. sáGabet,
nket. sáGavet´ 'sagen':
sket., nket. tsáGavet,
mket. tsáGabet 'ich sage',
Prät. tsáGol´bet < tsaGaol´bet [saGa...bet] (8.1);
Imp. sket. sáGal'get!, Pl. sáGal´getn!;
mket. tsáG(a)uGabet 'ich sage es', Prät. tsáG(a)uGól´bet (13.2);
jug. ságaja4btæh:t´ 'es ist gesagt',
vgl. mket. 2to?n´ b&n´ sáGajebet 'so gehört es sich nicht'
(wörtl. 'so ist es nicht gesagt');
vgl. kot. (C) c^a­gar 'sagen':
d´ac^agaran, / d´äc^agaran, 'ich sage',
Prät. alac^agaran,, Imp. al­c^agar!, Pass. alâc^agar (3.2);
kot. (M) álc^agar, (W) alc^agár, (Kl) alc^agar 'sprechen'
(eigentlich 'er / sie sprach');
ass. (M) ac^agár / álc^agar (W, Kl);
kot. (H) alc^igar 'ich spreche',
monaliga 'ich schweige', wörtl. 'ich spreche nicht' (mon aliga);
pump. (VW) c^eg' 'Stimme'; ||
PJ (S) *saga- 'sprechen';
ob jug. sogaj 'Lärm', 'Lärm machen' damit historisch ver­bunden ist
(S 1995), bleibt sehr problematisch

sán,ax (jug.)
1) 'erkennen', 'fühlen', 'erraten':
disán,ta:x / disán,taja:x 'ich fühle',
Prät. disán,tona:x [san,-t...ax] (11.1); disán,ax1a:get´ 'ich fühle',
Prät. disán,ax4oh:rget´ [san,ax...get´] (8.1);
san,axæsan, 'um zu erraten'; di­sán,axuáget´ 'ich errate es',
Prät. disán,axu4oh:rget´ [sán,ax...get´] (13.2);
Imp. sán,tajax!, Pl. sán,tajaxn!;
2) 'sich erkundigen nach...', 'prüfen':
disán,ax1ta:get´ 'ich erkundige mich', Prät. disán,ax4oh:rget´ (8.1);
disa­n,axóaget´ 'ich erkundige mich nach ihm und prüfe alles über
ihn´, Prät. disán,axo4oh:rget´ (13.2);
disán,axxájit´ 'ich prüfe ihn´, Prät. disán,axxáne (10.2);
disán,axxájdi? 'ich erkundige mich nach ihm, prüfe ihn' (iter.),
Prät. disán,ax4xoh:rdi?;
3) 'verstehen':
dasán,axæsan, 'um ihn zu verste­hen';
disán,axoáget´ 'ich verstehe ihn´,
disán,axo4oh:rget´ [sán,ax...get´] (13.2);
tsán,atonax 'ich habe ihn verstanden'

sán,axæsan, (jug.) 'um sich viel einzubilden':
disán,ta:x 'er bildet sich viel ein',
Prät. disán,tajax < *disán,tojax (?);
Imp. atá san,tajax! 'bilde dir nicht viel ein!',
atá sán,tajaxn! 'bildet euch nicht viel ein!' (8.10)

sán,bæren, 'suchen':
sket. sán,bæren,baGáRan 'ich beginne zu suchen',
Prät. sán,bæren,baGóRon (11.4)

sán,bæræn,s´ 'suchend´;
sán,bæræn, 2kæ?t 'suchender Mensch'

sán,bed´in,
(jug) '(stets) erfahren';
sán,bed´in,bagáxan 'ich beginne zu er­fahren':
disán,bed´in,áget´ 'ich erfahre', Prät. disán,bed´in,4oh:rget´ (8.1)

sán,bet 'suchen':
nket., sket. dasán,s´ivet 'sie sucht',
Prät. dasán,l´ivet / tsan,­il´bet (8.2);
bur´in,t ts´án,as´pæt 'ich suche sie (nach ihr)', Prät. ts´án,ol´bet;
buran,t ts´án,aspæt 'ich suche ihn (nach ihm)', Prät. ts´án,ol´bet;
mket. ts´án,sibet óks´æs´an, 'ich suche einen Baum';
jug. sán,axæsan, 'um zu suchen';
bu dasán,siget´ dan 'sie sucht ihn' (wörtl. 'sie sucht nach ihm'),
Prät. dasán,4oh:rget´ dan,;||
PJ (S) *san,- 'suchen'

sán,bet´ (jug.) 'erfahren':
sán,bed´bagáxan 'ich beginne zu erfahren' (11.3),
siehe jug. sán,bed´in, 'erfahren'

sán,tax
(jug.) 'erkennen', 'erfahren', 'behalten (im Gedächtnis)', 'sich
erinnern':
disán,tax / disán,tajax 'ich erfahre es', Prät. disán,tonax;
gisán,tax 'du erinnerst dich', Prät. gïsán,tonax;
disán,taxn 'wir erfahren',
Prät. disán,tonaxn [san,-t...ax] (11.1);
disán,tax1a:get´ 'ich erfahre (immer wieder)',
Prät. disán,tax4oh:rget´ [san,-tax...get´] (8.1);
vgl. jug. disán,ax­1a:get´ 'ich erinnere mich (stets)',
Prät. disan,ax4oh:rget´ (8.1);
Imp. sán,­tajax!, Pl. sán,tajaxn!;
dasán,ba4tah:x 'sie erkennt mich', Prät. dasán,bato­4nah:x;
1c^ip 1bu dasán,itonax 'der Hund hat sie erkannt'

sán,tet´(jug) 'erfahren':
disán,ted´áget´ 'ich erfahre',
Prät. disán,te4d´oh:rget´ (8.1),
Imp. sán,ted´arget´!, Pl. san,ted´argen!

sátej / sátij 'sich genieren', 'sich schämen':
sátej boGótn´ 'ich geniere mich';
sátej báGabes´an, 'ich beginne mich zu genieren' ('zu schämen'),
Prät. sátej bäGvins´an, / báGvins´am;
1at tsátejboGavet 'ich geniere mich',
tsátejboGol´bet;
1bu tsátejbuGavet 'er geniert sich',
Prät. tsátejbuGól´bet (12.2);
tsátejqäjda 'er beschämt ihn',
Prät. tsátejqól´da (10.3);
tsátejqájit 'er beschämt ihn' (mom.), Prät. tsátejqóna (10.2);
dasátejoGavet 'sie be­schämt ihn', Prät. dasátejoGól´bet (13.2);
jug. satej ds.:
lat sátej boáde 'ich schäme mich',
Prät. sátej bo4oh:nde / sátej bo4oh:rde;
disátejáget´ 'ich schäme mich', Prät. disátej4oh:rget´ (8.1);
disátejóaget´ 'er beschämt ihn', Prät. disátejo4oh:rget´ (13.2);
disátejxájit´ 'er beschämt ihn', Prät. disátejxóne (10.2);
disátejxájdï? 'er beschämt ihn (stets)', Prät. disátej­4xoh:rdi? (10.3);
auch jug, tsatífanxájdi? 'ich beschäme ihn',
Prät. tsatijfan4xoh:rdi? (10.3),
vgl. jug. satíjfan 'unverschämt', 'gewissenlos' sátej oGots´ (mket.):
1tu:de 2kæ?t sátej oGóts´ 'dieser Mensch schämt sich' ('ist einer,
der sich schämt')

sátejs´ 'schamhaft';
sátej2kæ?t 'schamhafter Mensch';
jug. sátejsi ds.

sátiens´ 'unverschämt' <
sátij /sáttij 'Gewissen' +
-an´ < han´ (Karitivfor­mans) +
-s´ (Prädikativsuffix);
jug. sátijfansi ds.;
sket. satien 2kæ?t,
jug. sátijfan / satíjfan 2kæ?t 'ein unverschämter Mensch'

sáGabet 'sagen': tsáGabet 'ich sage', Prät. tsáGol´bet;
mket. 1bon´ sáGajabet 'es ist untersagt',
wörtl. 'es ist nicht gesagt' (daß man es machen darf);
siehe jug. saga4bæh:t´ / ságabet´ 'sagen':
diságaget´ 'er / ich sage',
Prät. disága4oh:rget´; diságagen 'sie / wir sagen',
Prät. disága4oh:rgen (8.1)

sáxingedbet´ (jug.) 'beschuldigen':
disáxïngedóksïget´ 'ich beschuldige ihn', Prät. disáxingedoh:rget´;
disáxïngedúksïget´ 'er beschuldigt sie', Prät. disáxïnged1u:rget´
[saxïnged...get´] (13.3);
mket. t3sa:ngetkúGabet 'ich beschuldige dich',
Prät. t3sa:ngetkuGól´bet [sa:nget...bet] (13.2);
vgl. ket. 3sa:n´get 'der Schuldige'

3 sa:n /sáRan 'Schuld´;
mket. tuda b&n´ búda 3sa:n 'das ist nicht seine Schuld´;
nket. tur´e ap sáRan 'das ist meine Schuld´;
jug. sáxin ds.;
jug. bes sáxïnfan 2kæ?t 'unschuldiger Mensch';
vgl. ket. 1u bin´gu 3sa:n´get 'er ist selber schuld (Schuldige)';
lbu:n, 3sa:nden, 'sie sind schuld´; ||
PJ (S) *saq- ds.; vgl. kot. (C) as^ke ds.

3 sa:nans´ 'unschuldig' < 3 sa:n 'Schuld´, 'Gewissen' + -an 'ohne'
(Karitivformans) + -s´ (Prädikativsuffix);
jug. sáxïnfansi ds.; jug. 1bes saxïnfan 1dïl 'unschuldiges Kind´

3 sa:ngittaq 'sich vergehen', 'sich j-m gegenüber zuschulden kommen
las­sen' (3 sa:ngit 'der Schuldige'):

3 sa:ngitbataq 'ich vergehe mich' ('ich werde Schuldiger'),
Prät. 3sa:ngitbatonoq (11.6);
jug. sàxï´ngetba4tah:x 'ich vergehe mich',
Prät. sàxï´ngetbato4nah:x (11.4)

3 sa:n´get / sáRanget (m, Pl. sa:nden, / sáRanden,)
'der Schuldige';
jug. sáxinget, Pl. sáxïnd´en, ds.;
jug. 1u sáxïngetkutonax 'du bist zum Schul­digen geworden';
1ad b&n´ saxïnget 'ich bin nicht schuldig'

1se:p! 'genug!',
jug. 1sep! ds.:
jug. séifæ? 'es ist genug', 'es reicht';
sket. s´éGavan < s´éGavRan 'es wird reichen',
Prät. s´éGovon < s´éGovRon (8.8);
kot. (C)
s^êp 'genug', s
^êptu 'genug für dich',
s^êptan, 'genug für mich' (7.3); ||
in St 1997/2 : 230 < jak (< mo.) söp 'richtig', 'gut', 'in Ordnung'
oder < slk. sêpi 'genug'

sigat...get´ (jug.) 'suchen':
tsíigatáget´ 'ich suche', Prät. tsígat4oh:rget´ (8.1)

s´án,bær´en, 'suchen',
mket. s´án,bæden, ds.,
siehe ket. sán,bær´en, ds.

s´an,bet 'suchen':
sket. 1bu búran,ten das´án,s´ivet 'sie sucht ihn',
Prät. da s´án,ol'bet (8.2);
siehe ket. sán,bet ds.

s´átej / s´átij
1) 'Gewissen',
jug. sátij ds., sátijfansi 'unverschämt', 'gewis­senlos';
2) 'Scham', 'Schande'; 'sich schämen':
s´átij boGótn´ 'ich schä­me mich',
s´átij báGves´an, 'ich beginne mich zu schämen',
Prät. s´átij báGvin´s´an, (16.1);
siehe sátej/sátij ds.

s´áGabet/s´áGajbet 'sagen';
mket. s´al´do lb&n´ s´áGajabet 'Rauchen ist un­tersagt´,
wörtl. 'Rauchen ist nicht gesagt' ('nicht erlaubt'),
siehe sáGa­bet, jug. ságabet´ ds.

s´æ´Gaq 'messen', 'anprobieren' (Kleidung),
wörtl. 'anprobieren, ob es ge­nug ist'
(vgl.
ket. 1s´e:p,
jug. 1sep 'genug', 'es reicht',
ket. s´éGavRan 'es wird genug sein', 'es wird reichen'):
da3s´æ:qavr´a 'sie probiert es an',
Prät. da3s´æ:qovil´da (10.3);
sket. ts´æ´Guavet /ts´æ´GuGavet
'ich probiere es an', ts´æ´GuGol´bet [s´æG...bet] (13.2);
s´æ´Galut! < s´æ´GalRut! 'probiere es an!'
s´æ´Gavan I < s´ep-avRan (sket.),
jug. sébaban 'es wird genug sein',
sket. s´éGovon < s´épovRon,
jug. sébobon 'es wurde genug'
(ket. 1s´e:p, jug. 1sep 'genug')

s´ébatej (nket.) 'genug', siehe 1s´e:p! ds.

1s´e:p! 'genug!',
jug. 1sep!,
kot. (C) s^êp! ds.;
jug. seifæ? 'es ist genug';
sket. s´eGaban < s´eGavRan 'es wird genug sein',
Prät. s´eGobon < s´eGovRon (8.8);
kot. (C) s^êptan, 'genug für mich', s^êptu 'genug für ihn' (8); ||
PJ (S) *sep (~ -b) 'es reicht', 'genug';
vgl. slk. sîban, / sêban, 'genug';
St 1997/<br/><br/>(Message over 64 KB, truncated)